Tra il I e il II secolo d.C. si sviluppò un grande movimento all’interno del buddhismo primitivo. La rivoluzione, rappresentata da un’intensa produzione letteraria, non fu omogenea e iniziò all’interno delle numerose sette buddhiste indiane. Dall’ideale individualistico dell’arhat (illuminati), che costituivano una sorta di aristocrazia spirituale, prende piede il movimento Mahayana, il grande vascello, che ebbe ampia diffusione nell’Asia settentrionale e orientale, contrapponendosi all’Hinayana. Definito con intento polemico, dai seguaci del Mahayana, piccolo vascello, l’Hinayana precludeva ai laici una piena partecipazione alla vita religiosa e la possibilità della salvezza, consentendo, solo a un’élite spirituale, di compiere “la traversata” verso il nirvana. Il Mahayana, al contrario, si rivolgeva sia ai monaci che ai laici e perseguiva l’obiettivo della liberazione di tutti gli esseri dalla sofferenza, senza distinzione alcuna.
Il pensiero
I pensieri sono di due tipi. Non c’è niente di sbagliato in ciò che chiamo “pensiero tecnico”, quello che usiamo per camminare fino all’angolo della strada, per cuocere una torta o risolvere un problema di fisica. E’ un buon uso della mente. Qui non c’entra la realtà o l’irrealtà: è così e basta. Ma le opinioni, i giudizi, i ricordi, i sogni sul futuro…cioè il novanta per cento dei pensieri che ci vorticano in testa, non hanno alcuna realtà. Dalla nascita alla morte, a meno che non ci risvegliamo, sperperiamo la vita in questi pensieri. L’aspetto raccapricciante della seduta (davvero raccapricciante, credetemi) è assistere a quello che avviene nella nostra testa. E’ un brutto colpo per chiunque. Ci scopriamo violenti, prevenuti ed egoisti. E siamo così perché il falso pensiero su cui si basa la vita condizionata ha prodotto queste modalità. L’uomo è fondamentalmente buono, amorevole e compassionevole, ma ci vuole un faticoso lavoro di scavo per dissotterrare il gioiello sepolto.
Tratto da “Zen quotidiano” di Charlotte Joko Beck, pubblicato da Astrolabio Ubaldini.
Lo scopo nello Zazen
Se chi fa zazen pensa “il mio zazen è diventato un buon zazen “oppure “ho raggiunto lo scopo dello zazen” di altro non si tratterebbe che di un modo di pensare, che finisce per allontanare dalla realtà dello zazen. Perciò, mentre è assolutamente indispensabile tendere, mirare al vero zazen, bisogna anche dire che non è assolutamente possibile la consapevolezza di averlo raggiunto. Perché una così strana contraddizione? Di solito, a questo mondo se c’è un tendere c’è, ovviamente, anche uno scopo; perché si “tende” proprio in quanto vi è un obbiettivo. Qualora si capisse che non c’è nessun obbiettivo, chi mai “tenderebbe”? a cosa? Questo, secondo il modo utilitaristico di pensare, secondo un comportamento calcolante.
Invece, ora, interrotto questo commercio, questo calcolo utilitaristico diretto ad altro da sé, io faccio solo io in me stesso. Zazen fa solo zazen in zazen. Semplicemente, il sé fa se stesso facendo se stesso. Gettar via proprio quel pensiero calcolante per cui se vi è un tendere deve esserci un traguardo: Questo è Zazen. Solo “tendere”, assolutamente senza la coscienza dell’obbiettivo. E’ una cosa da matti a pensarci con la piccola mentalità umana; nient’altro che una contraddizione…Ebbene proprio nel mezzo, nel centro stesso di questa contraddizione, semplicemente soltanto sedersi
Però, che senso d’incompletezza, di qualcosa che sfugge, si prova in questo fare semplicemente zazen! Può succedere di sentirsi completamente perduti, di non sapere più che fare. Ma è davvero quando succede così, che lo zazen è assolutamente meraviglioso!
Dal libro La realtà della vita . Zazen così com’è, a parole di Kōshō Uchiyama Rōshi
Dhyana:Ch’an:Zen
Il termine sancrito dhyana, importato dai buddisti in Cina fin dai primi secoli dopo Cristo, tradotto in cinese (equivalente fonetico) diventa Ch’an (pronuncia arcaica: dian) e si scrive con un ideogramma che in giapponese si legge “Zen” termine con cui ciò di cui stiamo per parlare è conosciuto all’occidente.
Dhyana è stato tradotto in Occidente, spesso per comodità, ma con imprecisione, col termine “meditazione”. Non è difficile immaginare che i primi occidentali che entrarono in contatto con un certo tipo di spiritualità orientale, vedendo un uomo religioso seduto immobile, e cioè non intento a pregare o recitare mantra, lo ritennero intento a meditare e cioè a pensare. Il punto è che alla mente, e alla mente occidentale in particolare, manca il concetto di “assenza di mente”, se non come insulto o patologia, e quindi il termine dhyana, che indica in realtà l’assenza di pensiero, venne tradotto con meditazione.
Molto tempo fa, Cartesio disse: “Penso dunque sono”. Qui comincia la filosofia. Ma se non state pensando cosa succede? Qui comincia la pratica zen. (Maestro Zen Sueng Sahn)
Tratto da “Storia e storie di un’eresia chiamata Zen” di Fabrizio Ponzetta